Il futuro dell’abitare, parola d’ordine flessibilità

Se lo smart working continuerà a essere uno strumento per lavorare anche dopo la fine del lockdown, le abitazioni dovranno essere ripensate in un’ottica work-life balance. La maggiore autonomia e responsabilità hanno favorito nel lavoratore un certo senso di appagamento, ma hanno reso difficile la condivisione degli spazi, soprattutto per chi abita in città o in un appartamento.

La sensazione più comune è stata infatti quella di vivere in una casa che scoppia, e di lavorare senza soluzione di continuità. Come adattare quindi lo spazio domestico perché risponda, nel corso della giornata, a molteplici funzioni, condividendolo anche con altre persone che hanno bisogni diversi?

Home working, smart working e le nostre case

L’home working funziona. Grazie alla tecnologia ha fornito una risposta efficace a una condizione di emergenza, ma ha creato anche alcune difficoltà, riporta Ansa. “Il nostro spazio domestico è improvvisamente inadeguato – spiega Francesco Scullica, architetto, e direttore scientifico del Master Interior Design del Politecnico – i modelli di open space, di spazi a pianta libera, che hanno avvantaggiato negli ultimi anni la zona living a scapito di quella più privata, sono messi in discussione”. Le case, insomma, non si adattano molto bene al lavoro continuativo da remoto. Dopo anni in cui la casa era stata poco vissuta a favore di spazi pubblici ora tutto accade fra le quattro mura domestiche. E l’intero nucleo familiare è costretto a vivere insieme ogni giorno.

La casa non sostituisce un ufficio

La casa non può sostituire completamente un ufficio o uno spazio di coworking. Spesso per ragioni tecnologiche, ma soprattutto per la mancanza del fattore umano. Gli uffici sono infatti spazi relazionali dove si costruiscono comunità. Sono luoghi di incontri, opportunità e scambi di idee, acceleratori di relazioni.

Se in futuro vogliamo rendere le nostre case più adatte ad accogliere alcune giornate lavorative possiamo provare a ripensare la distribuzione degli spazi, in particolare la suddivisione tra quello pubblico e quello privato.

“Dovremmo innanzitutto stabilire quali potrebbero essere le stanze della casa aperte a tutti, sempre, e quali gli spazi dedicati al raccoglimento e al lavoro individuali”, commenta Isadora De Pasquale, architetto progettista di Copernico.

Ripensare, trasformare, rendere flessibile

La parola d’ordine del futuro nell’interior design sarà insomma flessibilità, negli spazi e negli arredi. Negli ultimi anni il lavoro di architetti e designer si era concentrato per rendere gli uffici adatti sia al lavoro sia alle relazioni ora è il momento di fare lo stesso all’interno delle nostre abitazioni. Trasformare la casa in un ufficio è impossibile, ma possiamo cercare di trasferire in casa alcune delle buone pratiche che solitamente adottiamo nell’arredamento funzionale degli uffici. Ad esempio, avere uno spazio personale dedicato al lavoro, dare importanza ai luoghi di transizione, scegliere arredi ergonomici e flessibili per le zone di lavoro e introdurre elementi di verde. E se anche l’arte è un acceleratore di creatività si può pensare di introdurre elementi artistici in casa. Perché la bellezza non è mai abbastanza

Fwa, una tecnologia cruciale per la richiesta di connettività al tempo del Covid-19

L’Italia si trova in una situazione senza precedenti, che sta mettendo alla prova non solo cittadini e Istituzioni, ma anche la capacità degli operatori Tlc di far fronte alla crescente richiesta di connettività. L’emergenza coronavirus, e il conseguente ricorso allo smart working di tantissimi lavoratori, sta determinando infatti un incremento della domanda stimata almeno del 50% in più rispetto all’abituale traffico dati. L’Fwa, il Fixed wireless access, sta dando prova di grande utilità e “resilienza”, poiché si basa su una tecnologia che sfrutta i collegamenti via etere. In questo modo, “consente di fornire servizi di connettività ad altissime prestazioni anche nelle aree bianche – spiega Enrico Boccardo, presidente della Coalizione per il Fixed wireless access (Cfwa) – ovvero in quelle aree nelle quali sono assenti altre infrastrutture a banda larga”.

Un servizio indispensabile per smart working e didattica a distanza

La Coalizione per il Fixed wireless access riunisce oltre 60 imprese ad azionariato prevalentemente italiano che condividono l’obiettivo di portare la connettività internet in tutta Italia, comprese le zone più impervie e difficili da raggiungere, le cosiddette aree bianche. Le aree del Paese dove gli operatori tradizionali non hanno investito.

Secondo Boccardo, l’Fwa rappresenta perciò “un servizio indispensabile per i cittadini, per le imprese e per la Pubblica amministrazione, in particolare in questo periodo in cui cresce il ricorso allo smart working, alla didattica a distanza e ai tanti altri servizi informatici e telematici”.

Imprese pronte a potenziare ulteriormente le infrastrutture

Grazie all’Fwa la possibilità di portare connettività internet alle persone e alle aziende e in tempi pressoché immediati in tutto il Paese rappresenta “un elemento fondamentale, strategico e che va sfruttato al meglio – continua il presidente Cfwa -. Come imprese di pubblica utilità siamo pronti a potenziare ulteriormente le nostre infrastrutture e a garantire sempre, specialmente in questo momento critico, il funzionamento delle reti, l’operatività e la continuità dei servizi”.

Necessario intervenire con investimenti privati una volta superata l’emergenza

Per facilitare questo compito, riporta Askanews, le imprese aderenti a Cfwa hanno però bisogno di “una maggiore e duratura disponibilità di frequenze per l’accesso, e di una riduzione dei canoni per l’utilizzo delle frequenze di backbone – aggiunge Boccardo – ove queste siano utilizzate per raggiungere, grazie a investimenti privati, aree nelle quali le infrastrutture di Tlc sono carenti. Spero che il governo possa intervenire in questo senso – sottolinea il presidente Cfwa – anche in considerazione del fatto che una volta superata questa emergenza si sarà radicato nel Paese un maggiore utilizzo delle reti di telecomunicazioni nei tanti ambiti della vita di ognuno”.

Informazione fra vecchi e nuovi media: come siamo messi?

Tradizionale Tg in televisione, giornale cartaceo, web, social media? Quali sono le fonti di informazione principalmente utilizzate dagli italiani? Beh, è sotto gli occhi di tutti come l’informazione sia, a livello globale, altamente polarizzata. Ma alla domanda ha tentato di rispondere il 16° Rapporto sulla comunicazione del Censis, con un’indagine approfondita delle modalità utilizzate dai nostri connazionali per informarsi. Dall’indagine si scopre che le prime cinque fonti d’informazione utilizzate dagli italiani includono strumenti tradizionali come telegiornali, reti televisive all news e quotidiani cartacei, insieme all’innovazione fornita dalla piattaforma social più diffusa, Facebook, e dai motori di ricerca su internet, come Google. “I telegiornali mantengono salda la leadership: sono i programmi a cui gli italiani ricorrono maggiormente per informarsi (59,1%). L’apprezzamento è generalizzato, ma aumenta con l’età: dal 40,4% dei giovanissimi al 72,9% degli over 65. Elevato è anche il favore accordato alle tv dedicate all’informazione a ciclo continuo, 24 ore su 24, utilizzate per informarsi dal 19,6%” spiega il rapporto. Dopo il telegiornale, però, il secondo strumento più utilizzato per informarsi è Facebook (scelto dal 31,4% degli italiani) seguito dai motori di ricerca con il 20,7%. I giornali cartacei, con il loro 17,5%, guadagnano oltre punti percentuali rispetto all’analogo rapporto di due anni fa.

La politica l’argomento più “caldo”

Dai dati sopraelencati si evince che gli italiani costruiscono un mix personalizzato delle fonti, online e offline. Ma quali sono gli argomenti preferiti e coinvolgenti? Senza dubbio quelli legati alla politica nazionale, che conquistano il 42,4% della popolazione: le vicende di governi e partiti politici rappresentano in assoluto il genere di notizie più seguito. La politica stacca di 10 punti percentuali le voci classiche dei palinsesti informativi, come lo sport (29,4%) o la cronaca nera (26,1%) e rosa (18,2%). Ancor più basso l’interesse dimostrato per  le notizie economiche ((15,3%) e di politica estera (10,5%).

Ai “grandi” mancano le competenze digitali

Anche se Internet ormai fa parte della vita quotidiana, il 25,0% degli italiani ammette di non possedere le competenze necessarie per muoversi agevolmente nel mondo digitale. Sono maggiormente digitalizzati coloro che hanno tra i 30 e i 44 anni (8,0%) e tra i più istruiti (11,4%), alla pari con i più giovani (11,5%): sono questi i soggetti meglio attrezzati per vivere nell’ambiente digitale. Mentre il 57,3% delle persone anziane confessa un totale deficit di competenze.

Il viaggio è digitale. L’eTravel raggiunge 15,5 miliardi di euro

Il viaggio inizia sempre di più sulla rete, anche se si concretizza nel mondo reale: a dirlo è l’ottava edizione dell’Osservatorio Innovazione Digitale nel Turismo della School of Management del Politecnico di Milano. Qualche dato emerso dalle ricerca e riferito al 2019: l’eCommerce dei viaggi cresce del 9% e raggiunge i 15,5 miliardi di euro (trainato dal mobile, con un +32%), ma cresce anche il mercato complessivo con l’83% delle agenzie che registra un fatturato in crescita rispetto al 2018 e un segmento tradizionale come quello dei principali Tour Operator che fa segnare un +7%. “Se sono anni che l’eCommerce assicura tassi di crescita vicini (o addirittura superiori) alla doppia cifra, nel 2019 anche i canali distributivi ‘tradizionali’ dimostrano di aver saputo reagire alla crisi. L’83% delle agenzie di viaggio italiane, infatti, prevede per il 2019 una crescita del fatturato” dichiara Filippo Renga, direttore dell’Osservatorio Innovazione Digitale nel Turismo del Politecnico di Milano. “Il mercato del turismo sembra quindi avere spazio perché i due modelli distributivi, digitale e tradizionale, possano convivere ‘alleandosi’ per intercettare bisogni diversi nel turista: il digitale (attraverso i suoi touch point, strumenti e linguaggi) in alcuni casi diventa fattore abilitante per migliorare i propri processi anche per chi ha costruito il proprio brand sul retail fisico”.

Il 97% dei viaggiatori cerca informazioni on line

Impensabile oggi progettare, o semplicemente sognare, un viaggio senza l’ausilio di Internet. Il 97% degli italiani intervistati utilizza infatti la rete nelle fasi di ispirazione e ricerca e l’85% per prenotare l’alloggio della vacanza principale organizzata nel 2019. Ma c’è di più: sempre sul web si svolgono l’88% delle prenotazioni per gli aerei, l’86% per l’auto a noleggio, l’83% per i treni da parte dei nostri connazionali che hanno accesso a Internet. Il 53% dei viaggiatori, poi, sceglie i canali digitali per prenotare musei, tour, ristoranti una volta raggiunta la meta mentre il 63% degli italiani sceglie l’acquisto di persona sul posto.

Si viaggia con lo smartphone

Lo smartphone viene utilizzato dal 90% dei turisti nelle varie fasi del tourist journey, in particolare per la ricerca di informazioni (71%), l’acquisto di servizi prima del viaggio (33%) e la condivisione sui social e tramite recensioni (33%). Le app più utilizzate sono quelle per la ricerca e prenotazione di ristoranti (41%) e guida della località e del territorio (35%). Tuttavia, la rete non è l’unica “consulente” dei viaggi. Gli italiani confermano anche un forte attaccamento per il retail fisico – l’agenzia di viaggi in primis –  cui si è rivolto 1 italiano su 3 (33%).

 

Italia terza in Europa per cyber sicurezza

Tra maggio 2018 e gennaio 2019 in Italia sono stati riferiti 610 casi di violazione dati. Si tratta del terzo numero più basso in Europa, una posizione che colloca l’Italia al terzo posto tra le nazioni più sicure in tema di cyber security. Navex Global, la società di software e servizi di etica e conformità, ha reso noti i dati del report sulla privacy e la conformità GDPR. Oltre a determinare il livello di cybersecurity del nostro Paese, il report ha evidenziato come quasi 7 su 10 compliance officers europee si preoccupino della privacy dei dati, e il 68% consideri la sicurezza informatica un argomento fondamentale in materia di etica e conformità.

Più di un quarto delle organizzazioni ha un programma di conformità incompleto

Nonostante questo, più di un quarto (27%) delle organizzazioni ha un programma di conformità incompleto, e non considera la privacy dei dati una delle principali preoccupazioni. Quasi la metà (47%) delle organizzazioni ammette poi che la scarsità delle risorse è il problema più grande. La colpa è da attribuirsi alla mancanza di formazione in materia di data privacy. Nelle aziende con un programma di conformità reattiva, solo il 53% dei senior manager e dei non manager ha ricevuto training sulla data privacy, e solo il 41% sulla cyber security.

Costi per i data breach, nelle piccole imprese -50%, nelle grandi +341%

Quando invece si tratta di organizzazioni con programmi di conformità avanzati, il 22% dei non-manager non riceve alcuna formazione sulla privacy dei dati o sulla sicurezza informatica. Il che significa che quasi un quarto del personale in prima linea non riceve alcuna guida.

Di fatto però i costi per i data breach delle piccole imprese sono diminuiti di oltre il 50% nel 2019, mentre per le medie imprese i costi di violazione dei dati sono aumentati del 327%. E per le grandi imprese hanno registrato un aumento del 341%.

“La vera posta in gioco è proteggere le persone”

Segnali promettenti arrivano dalle organizzazioni che hanno implementato un programma di gestione degli incidenti, con il 37% che afferma quanto questo abbia contribuito a costruire una cultura aziendale basata sulla fiducia. Il 64% delle aziende ha affermato poi che disporre di un codice di condotta è l’elemento di maggiore effetto sulla prevenzione di violazioni etiche. E il 60% possiede un sistema di segnalazione interno, ad esempio, una hotline di gestione degli incidenti per identificare le violazioni della politica aziendale.

“I programmi di comunicazione interna e di formazione sono strumenti essenziali per sostenere la data governance – commenta Jessica Wilburn, Data Privacy Officer e Senior Counsel presso Navex Globa -. È importante tradurre la privacy in ciò che significa per i diversi reparti, team e ruoli, ma è ancora più importante quando si parla di quale è la vera posta in gioco: proteggere le persone.”

 

Startup Hi-Tech, investimenti per 694 milioni di euro

L’ecosistema italiano delle startup hi-tech è vicino ai 700 milioni di euro di finanziamenti. Nel 2019 gli investimenti totali in Equity di startup hi-tech in Italia ammontano infatti a 694 milioni di euro, in crescita del’17% rispetto al valore totale consuntivo del 2018, quando ammontavano a 593 milioni di euro.

La prima fonte di capitale per l’ecosistema si rivelano gli investimenti degli attori informali. Questi crescono del 32% e raggiungono quota 248 milioni di euro, mentre gli investimenti degli attori formali, storico motore dell’ecosistema italiano, registrano una crescita del solo 12%, raggiungendo i 215 milioni di euro. La quota di capitale derivante dagli attori internazionali ammonta invece a 154 milioni di euro (+58%), con una crescita importante dei fondi provenienti da Europa e Cina.

Si avvicina il raggiungimento della soglia obiettivo del miliardo di euro

È quanto emerge dalla 7a edizione dell’Osservatorio Startup Hi-tech promosso dalla School of Management del Politecnico di Milano in collaborazione con Italia Startup, l’Associazione dell’ecosistema startup italiano.

“Il valore complessivo investito in Equity di startup hi-tech nel 2019 si avvicina ai 700 milioni di euro (+17%), mostrando un rallentamento che costituisce una parziale battuta di arresto – afferma Antonio Ghezzi, Direttore dell’Osservatorio Startup Hi-tech del Politecnico di Milano -. Nonostante l’ecosistema non abbia mantenuto i trend ‘eccezionali’ fatti registrare nel 2018, è comunque importante sottolineare come la crescita 2019 resti un dato positivo”, che avvicina l’Italia al raggiungimento della soglia obiettivo del miliardo di euro di investimenti annui.

L’Italia recupera alcune posizioni verso Francia, Germania e Spagna

“Rispetto al benchmark internazionale, anche i numeri di quest’anno confermano la distanza dell’Italia rispetto ad altri ecosistemi più maturi ed economie comparabili, come Francia, Germania e Spagna”, spiega Raffaello Balocco, responsabile scientifico dell’Osservatorio Startup Hi-tech del Politecnico di Milano. Rispetto allo scorso anno, però, l’Italia recupera alcune posizioni nei confronti di Paesi che continuano a correre più rapidamente di noi. Un elemento sintomatico di questo trend è l’aumento del taglio medio di investimenti. “Le startup hi-tech italiane hanno sempre trovato estrema difficoltà nell’intercettare investimenti superiori ai 10 milioni di euro, ma il trend appare in miglioramento: nel 2018 erano già stati rilevati circa 12 round superiori a questa soglia e nel 2019 il numero si attesta a 14”, commenta Balocco.

Cresce l’attrattiva da parte dei capitali esteri

Come ecosistema imprenditoriale nazionale l’Italia sta iniziando ad attrarre investimenti esteri in maniera più sistematica e continua. Guardando alla provenienza dei capitali attratti dall’ecosistema da parte di player esteri, l’Europa è al primo posto (46,4%), seguita da USA (41%), Cina (11,6%), Giappone (0,55%) e Taiwan (0,49%). Rispetto al 2018, che vedevano primi gli USA (72,73%), seguiti da Europa (23,36%), Cina (3,77%) e Brasile (0,06%), si nota una crescita importante della rilevanza dei paesi asiatici, in particolare la Cina, ed europei. Che compensano la decrescita della rilevanza degli investimenti da parte degli Stati Uniti.

Neolaureati, gli italiani tra i meno pagati d’Europa

I neolaureati italiani sono tra i meno pagati d’Europa, e si collocano al quattordicesimo posto della classifica europea, dietro Paesi come Irlanda e Slovenia. I neolaureati italiani infatti possono aspirare a un primo stipendio annuo di 28.827 euro, contro i 36.809 euro dei coetanei francesi o i 49.341 euro di quello tedeschi, fino ad arrivare ai 73.370 euro dei neolaureati svizzeri, i più pagati d’Europa. Questo è quanto emerge dall’ultimo Starting Salaries Report di Willis Towers Watson, che analizza il valore del primo stipendio e le retribuzioni offerte ai neolaureati in 31 paesi di tutto il mondo.

In Italia non c’è differenza tra un diplomato, un laureato e un dottorando

Il report evidenzia quindi notevoli diseguaglianze tra l’Italia e gli altri Paesi d’Europa, soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra valore della retribuzione e livello di scolarizzazione. Ma in Italia tra un diplomato e un laureato la differenza non è rilevante dal punto di vista retributivo. Chi ha scelto di conseguire una laurea può aspirare a guadagnare infatti solo il 12% in più rispetto a un neodiplomato, e lo stesso divario (13%) si riscontra anche tra chi ha conseguito una laurea e chi invece un dottorato di ricerca. Molto diversa la situazione in Germania, dove una laurea, per chi si affaccia al mondo del lavoro assicura una retribuzione superiore del 32% rispetto a un diploma. O in Francia, dove per un dottorato viene riconosciuto un salario superiore del 43% rispetto alla laurea, riporta Askanews.

Le prospettive di crescita a breve termine non sono incoraggianti

“Le prospettive remunerative dei neolaureati in Italia si confermano non molto entusiasmanti – ha commentato Rodolfo Monni, responsabile indagini retributive di Willis Towers Watson Italia -. Rispetto agli altri Paesi europei con un’economia comparabile, come Francia e Germania, la laurea in Italia non garantisce un primo stipendio sostanzialmente superiore a quello offerto da un diploma”. Questo vale anche per le prospettive di crescita a breve termine, che “non sono incoraggianti”. ha aggiunto Monni.

Dopo due anni l’aumento della retribuzione aumenta di circa il 10%

In pratica, dopo due anni di lavoro un laureato italiano vede aumentare la sua retribuzione fissa di circa il 10%, meno la metà di Francia e Germania, per cui l’aumento si attesta sul  22%, e di Spagna e Regno Unito, che sale al 25%. “Una progressione che un neolaureato italiano riesce a raggiungere dopo 4 o 5 anni dall’ingresso nel mondo del lavoro”, ha sottolineato ancora Rodolfo Monni.

Poco significative poi anche le differenze tra le varie funzioni aziendali. I ruoli più remunerativi per i neolaureati si dimostrano quelli commerciali, con uno stipendio massimo annuale di 31.988 euro, mentre i lavoratori meno pagati sono quelli impiegati in ambito manifatturiero, dove la retribuzione si attesta sui 30.996 euro all’anno.

Avere amici magri fa dimagrire

Chi va con lo zoppo impara a zoppicare, si dice. E a ragione, perché i comportamenti, un po’ come i virus, sono contagiosi. Avere amici longilinei aiuta quindi a dimagrire, lo affermano gli esperti di Dottoremaeveroche, il sito della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e odontoiatri (Fnomceo) contro le fake news. “La questione dell’obesità contagiosa è stata studiata in modo molto rigoroso. Se ne sono occupati medici statunitensi famosi per la qualità e il rigore delle loro ricerche, che sono partiti dai dati raccolti in uno studio epidemiologico avviato nel 1948 in una cittadina americana vicino Boston”, spiegano gli esperti.

Lo Studio Framingham e i “tre gradi di influenza”
La cittadina vicino a Boston è Framingham, e oggi lo Studio Framingham è conosciuto da molti medici di tutto il mondo. A Framingham è stato possibile ricostruire la rete di relazioni familiari e amicali di 5.124 persone, a loro volta legate a una comunità più allargata di 12.067 amici e parenti, riporta Adnkronos. Cos’è stato scoperto? “Rispetto alle persone snelle, quelle obese hanno maggiori probabilità di avere amici, amici di amici e amici di amici di amici ugualmente obesi. Vale dunque la regola dei tre gradi di influenza: non soltanto tra amici diretti, ma anche a distanza, per così dire”, sostengono gli esperti di Dottoremaeveroche.

La propensione a imitare i comportamenti

Ma la propensione a imitare i comportamenti vale anche in positivo. “Pensiamo ad esempio che il successo di interventi che puntano ad aiutare una persona obesa a dimagrire non solo possono avere effetto su di lui o di lei, ma anche sul suo compagno o compagna di vita: moglie o marito – aggiungono i dottori anti-bufale -. Se non hai un cane né sei pronto ad adottarne uno dal canile, potresti farti un amico che già ne abbia uno, con cui passeggiare portandolo nel quartiere o al parco a fine giornata. Anche se non farai i diecimila passi fatidici, sarà comunque molto utile per dimagrire o anche solo tenersi in forma”.

Gli opinion leader li abbiamo già in famiglia o in classe

Inoltre, siamo più condizionati da chi ci sta vicino piuttosto che da modelli lontani o virtuali. Gli opinion leader, in un certo senso, li abbiamo in famiglia o in classe.

“Per avere più probabilità di dimagrire, non dovremmo cercare di ottenere la forma fisica di Federica Pellegrini, un obiettivo probabilmente frustrante perché non realistico – assicurano gli esperti – piuttosto, funziona la strategia di coinvolgimento di chi è più prossimo insieme con un piccolo gruppo ma più allargato, perché in questo modo potremo mettere maggiore distanza tra noi e possibili influenze negative”.

Libri di testo usati come veicolo per malware. Scoperti 53.531 file dannosi

I libri di testo rappresentano una parte imprescindibile di qualsiasi programma scolastico, e spesso costituiscono un impegno economico oneroso. Proprio per questo motivo molti libri sono facilmente reperibili online, su siti web pirata o forum di file hosting, a prezzi meno elevati, che consentono quindi agli studenti un notevole risparmio economico. Questa opportunità, però, può essere sfruttata anche dai cybercriminali con l’intento di diffondere i malware. Gli esperti di Kaspersky infatti hanno scoperto 53.531 file dannosi o potenzialmente indesiderati che si presentavano sotto forma di finti saggi e libri di testo per scuole e università.

Rilevate 17.755 minacce nascoste in finti libri per scuole e università

Dai risultati del report Back to School di Kaspersky risulta che da agosto 2018 a luglio 2019 i file dannosi provenienti da finti libri di testo sono stati utilizzati in 356.662 attacchi rivolti a 104.819 utenti, per fortuna, il 21% in meno rispetto ai dati dell’anno precedente. Complessivamente, sono state rilevate 17.755 minacce nascoste in finti libri di testo, tra cui libri di inglese (2.080), matematica (1.213) e letteratura (870). La maggior parte delle minacce nascoste nei finti materiali didattici erano in realtà sia minacce invasive, ma poco pericolose (come adware e software indesiderati) sia malware molto pericolosi, che come obiettivo avevano il furto di denaro, riporta Adnkronos.

Nel 35,5% dei casi si trattava di un worm veicolato da chiavette usb

Le restanti 35.776 minacce si presentavano come finti saggi e relazioni scolastiche che contenevano quello che per i ricercatori si è rivelato un dettaglio inusuale. Nel 35,5% dei casi, il malware più diffuso era un worm apparso otto anni fa, una minaccia considerata ormai obsoleta e attualmente non più in uso. È stato distribuito attivamente attraverso un vettore d’attacco specifico, le chiavette USB. Dopo un esame più attento, gli esperti sono giunti alla conclusione che il worm fosse presente nei computer dei servizi stampa per gli studenti, spesso utilizzati per anni senza effettuare regolari aggiornamenti di sicurezza e dotati di versioni obsolete dei sistemi operativi. Il worm veniva veicolato attraverso quello che sembrava essere un innocuo documento da stampare.

“Un’opportunità allettante per i criminali informatici”

“Il tentativo degli studenti di non pagare i manuali e altro materiale scolastico rappresenta un’opportunità allettante per i criminali informatici – afferma Morten Lehn, General Manager Italy di Kaspersky -. Questa opportunità per i criminali si trasforma in un serio problema per gli istituti scolastici, poiché nel momento in cui l’infezione arriva su un computer dell’istituto scolastico può essere facilmente diffusa su tutta la rete. Non tutte le scuole sono pronte a rispondere efficacemente agli attacchi, poiché gli istituti scolastici sono considerati un obiettivo atipico per i truffatori. È importante però tenere in considerazione che i cybercriminali sfruttano ogni tipo di occasione. Ecco perché per queste organizzazioni è di vitale importanza munirsi di misure precauzionali”.

 

Per molti italiani la macchina è un oggetto di grande valore, da trattare con la massima cura. Eppure, c’è sempre un pericolo in agguato: il furto. E oggi più che mai l’allerta è alta, perché dopo 5 anni di costante, graduale calo, il numero dei furti d’auto nel nostro Paese è ritornato a crescere. Secondo i primi dati elaborati dal Ministero dell’Interno, nel 2018 sono stati 105.239 gli autoveicoli sottratti, +5,2% rispetto ai 99.987 registrati nel 2017. Un dato preoccupante, specie se si considera che la percentuale di auto rubate ritrovate si attesta solo al 40%. I consigli degli esperti Per mettere al sicuro la propria quattroruote, specie di questi tempi dove le nuove modalità hi-tech consentono di forzare un’auto e metterla in moto anche in meno di 60 secondi, arrivano i consigli degli esperti di LoJack, realtà specializzata nel rilevamento e recupero di auto rubate. Pronto quindi il decalogo, particolarmente utile quando si entra nel clima vacanziero e si rischia di essere più distratti del solito. Il vademecum prevede indicazione che solo in apparenza possono sembrare banali e suggerimenti per contrastare le nuove modalità hi-tech di sottrazione. In moto e al parcheggio Ecco le principali dritte. Non lasciare l’auto accesa e con le chiavi inserite, nemmeno per pochi secondi (come quando si è in doppia fila); anche se fa caldo, prima di lasciare l’auto chiudere sempre i finestrini e il tettuccio: ai ladri esperti servono solo pochi centimetri per fare il colpaccio. Non lasciare l’auto di notte in parcheggi isolati o incustoditi. Anche se, soprattutto nel periodo estivo, non si usa quotidianamente l’auto, verificare ogni giorno che sia parcheggiata nel punto in cui è stata lasciata. Denunciare subito l’eventuale furto aumenta la possibilità di ritrovare la vettura, specie se questa è dotata di un dispositivo di rilevamento hi-tech. E’ utile osservare con attenzione il luogo in cui si parcheggia: se per terra ci sono frammenti di vetro, è sego che l’area è a rischio furto o vandalismo. Non parcheggiare sempre nello stesso posto, le abitudini danno modo al ladro di organizzare al meglio il furto. Attenzione alle truffe Sempre più spesso i ladri utilizzano un escamotage come un finto incidente (con la tecnica dello specchietto, il lancio di piccole pietre sul fianco dell’auto o ancora un lieve tamponamento) per costringere i guidatori (soprattutto donne e anziani) a fermarsi, scendere dall’auto e sottrargliela. In autostrada quando si sosta all’autogrill o quando si parcheggia in un centro commerciale e si chiude la vettura a distanza tramite una smart key, controllare sempre manualmente l’avvenuta chiusura delle portiere. Un ladro, appostato nelle vicinanze, potrebbe aver disturbato il segnale con un jammer per poi entrare indisturbato nel veicolo. Sì alla protezione Per mettersi al riparo da questo genere di furti, è utile installare sulla propria vettura un sistema di antifurto. Ancora, si consiglia di proteggere la chiave della macchina, custodendola in un “card protector” che ne impedisca la clonazione o che blocchi la sempre più diffusa modalità di furto hi-tech “relay attack”, con la quale i ladri, utilizzando ripetitori in radiofrequenza, riescono a riprodurre la comunicazione tra l’auto e la sua chiave.

Sarà per la tanto decantata dite mediterranea, oppure per un sistema sanitario che tutto sommato funziona, o forse ancora per una genetica super: fatto sta che l’Italia è diventato il paese dei centenari. Proprio la nostra nazione, insieme alla Francia, detiene il record europeo del numero di ultracentenari. Al 1 gennaio 2019 i centenari residenti in Italia sono 14.456, in gran parte signore (ben l’84%). Il dato sulla longevità tricolore emerge dalle ultime rilevazioni dell’Istat, secondo le quali tra il 2009 e il 2019 sono 5.882 gli individui che hanno raggiunto l’importante traguardo dei 105 anni di età (semi-supercentenari): sono 709 maschi e 5.173 femmine. Di questi, 1.112 sono ancora vivi al 1 gennaio 2019. Nell’arco temporale considerato, l’incremento della popolazione semi-supercentenaria è costante e superiore al 100%: numeri davvero significativi.

Nel Nord Italia si vive più a lungo

Come anticipato, probabilmente questo fenomeno può essere parzialmente spiegato dal fatto che chi raggiunge la soglia dei 105 anni gode di un’elevata longevità legata a un fattore genetico. Anche gli individui di 110 anni e oltre sono cresciuti fortemente, passando da 10 a 21. “A oggi la persona vivente più longeva d’Italia è una donna di 113 anni residente in Emilia-Romagna” riporta una nota dell’Adnkronos, che sottolinea che comunque l’elisir di lunga vita sembra concentrarsi più al Nord che nelle altre aree dello Stivale. Tra gli italiani di oltre 105 anni, infatti, 338 risiedono nel Nord-ovest, 225 nel Nord-est, 207 al Centro, 230 al Sud e 112 nelle Isole. La regione con il rapporto più alto tra semi-supercentenari e il totale della popolazione residente alla stessa data è la Liguria (3,3 per 100 mila), seguita da Friuli-Venezia Giulia (3,0 per 100 mila) e Molise (2,6 per 100 mila). La Lombardia, nonostante abbia il maggior numero di semi-supercentenari in valore assoluto (201), presenta un rapporto tra popolazione di 105 anni e oltre e quella totale residente pari a 2,0 per 100 mila, in linea con il dato nazionale (1,9 per 100 mila). La distribuzione regionale cambia analizzando il rapporto tra la popolazione semi-supercentenaria e la popolazione residente di 80 anni e più: con circa 36 persone di 105 anni e oltre ogni 100 mila residenti con più di 79 anni il Friuli-Venezia Giulia si posiziona al primo posto.

Le donne hanno i superpoteri

Infine, un dato che conferma la migliore “tenuta” delle signore rispetto ai signori.  Al 1 gennaio 2019, rileva l’Istat, quasi il 90% delle persone che hanno superato i 105 anni è composto da donne, se ne contano 2.564 (86,8%) contro 391 uomini (13,2%). La maggiore longevità del genere femminile si riscontra anche tra chi ha raggiunto e superato i 110 anni di età, difatti il 100% di tali individui è composto da donne.